Profughi dal Kosovo

Le testimonianze dell'orrore



Ismet ha undici anni. Stava scappando dal suo villaggio con la famiglia. Erano tutti sul rimorchio di un trattore quando a pochi km dal confine tra Kosovo e Albania hanno incontrato una pattuglia di serbi. La mamma è stata tirata giù dal mezzo e sgozzata sotto gli occhi del padre e dei fratelli e sorelle poi uno dei miliziani si è avvicinato al rimorchio sovraccarico di persone con le poche cose che erano riusciti a portarsi dietro e a buttato una bomba a mano. L'esplosione ha ucciso il padre sul colpo e una cugina. Ismet è rimasto ferito al viso e porterà i segni dell'orrore per tutta la vita.

Aveva 18 mesi, era il decimo di undici figli. Quando la famiglia è arrivata al campo profughi "Kukes Due" erano le 11.30 di notte dopo aver camminato cinque giorni per 150 km sotto la pioggia e il freddo. Non ce l'ha fatta, è morto di stenti. I medici hanno solamente potuto verificarne il decesso e compilare il certificato di morte. Tra la confusione degli innumerevoli arrivi di quella notte non ricordano più neanche il nome. E' uno dei tanti bambini senza nome deceduti a causa della pulizia etnica.

"...abbiamo sentito gli aerei e poi l'esplosione delle bombe sulla colonna che componeva i trattori e le auto in fuga verso il confine dell'Albania - racconta Faze Gela, 52 anni - mia figlia Valentina di 18 anni è stata colpita gravemente mi chiamava, mamma, mamma diceva. Poi sono arrivati i serbi. Hanno preso morti e feriti e li hanno messi tutti insieme. Ho detto loro che mia figlia era ancora viva ma ci hanno mandati via".

I medici si stanno ancora chiedendo come ha fatto il suo cuore a resistere alla fatica del viaggio. Infatti quando Shaquiz, 20 anni ma ne dimostra 15, è arrivato al campo profughi si sono immediatamente accorti, dal colore della pelle quasi violacea, della grave disfunzione cardiaca curata fino a quel momento come malattia della pelle. E' stato immediatamente mandato in Italia e operato d'urgenza. La guerra, nella sua brutalità, gli ha salvato la vita.

Zabo vive in Italia, a Roma, dove lavora come imbianchino. Quando ha saputo che il suo villaggio era stato evacuato dai serbi è corso al confine con il Kosovo per cercare la sua famiglia. Ha trovato il padre e la madre e sua moglie coi tre figli. E' riuscito a trovar loro un posto a Kukes dentro l'aia di una fattoria condivisa con altre 2000 persone accalcate dentro tende improvvisate ricoperte da teloni di plastica e rimorchi di trattore. Il padre ha problemi alle gambe e può solo stare seduto nella loro auto senza targa. Nel campo improvvisato non ci sono servizi igienici né acqua "...ma almeno è protetto dai muri di recinsione - spiega Zabo - voglio partare la mia famiglia in salvo in Italia ma non so come fare".

La famiglia dice che ha cento anni, lui non sente, è sdraiato su un fianco sul pavimento di una stalla che hanno messo a disposizione i proprietari del terreno nella quale vivono decine di famiglie kosovare. E' assente, pallido, affaticato da tutto ciò che ha visto e subìto e dalla lunga fatica del viaggio. Sette giorni a piedi sotto la pioggia e il freddo dopo gli orrori passati con tutti gli abitanti sopravvissuti del suo villaggio.

Nella stalla ci sono anche due gemelli di quattro anni con la loro mamma e un altro fratellino più grande. Sono dello stesso villaggio del vecchio centenario. Sono riusciti a scappare con una famiglia che è riuscita a salvare uno dei figli (vedi foto) con una grave forma di handicap portandolo a spalla per tutto il viaggio.

E' arrivato al campo profughi "Kukes Due" con spalla destra fratturata. I medici non capiscono come Javat, 15 anni, abbia fatto a resistere al dolore. Lui racconta che i serbi prima di lasciarlo andare con la famiglia lo hanno colpito duramente alla spalla col calcio del fucile dicendogli che così non avrebbe potuto sparare contro di loro con quelli dell'UÇK.

"Hanno preso tutti gli uomini del villaggio e li hanno messi a terra a faccia in giù. Uno dei miliziani serbi poi si avvicinava a uno dei nostri uomini e ridendo diceva 'ora lo ammazzo' e sparava a vuoto sulla testa del prigioniero lasciandoci tutti terrorizzati ma ogni tanto, scegliendo gli uomini a caso e continuando a dire 'ora lo ammazzo', sparava davvero"


Gallery

PROFUGHI DAL KOSOVO
E-mail: kosovo@catpress.com
Uno speciale di

CatPress