Il Cuore Del Drago
il ricordo di un reporter in missione
tra le fiamme del Kuwait


di Vincenzo Di Dato

Al Ahmadi era grigia. Una specie di Pompei artificiale, dove il catrame sostituiva la cenere. Ci inoltrammo su una pista sabbiosa, verso sudovest, verso il "Cuore del Drago" come lo chiamavamo, per provare a scherzarci un po' su. In realtà eravamo profondamente colpiti da quanto ci avvolgeva nel piccolo stato del Kuwait invaso dall'esercito irakeno nel 1990 e liberato dalla coalizione internazionale nel Febbraio 1991. Il sole, lentamente, metro dopo metro, scompariva inghiottito dalla densità delle colonne di fumo nero.

Ogni rumore si attutiva, immerso in quello del vento che faceva sfregare tra loro i granelli di sabbia, coperto dallo sferragliare delle ruspe dei Fire Fighters, dal grido fastidioso delle pompe dell'acqua che serviva a raffreddare i pozzi e dal suono delle fiamme, molto simile a quello di grandi aerei che stanno scaldando i motori. Potevamo muoverci solo indossando una maschera antigas. Per ore. E per ore la sete limava la gola mentre la temperatura arrivava a 54°C all'ombra. Un'ombra inesistente in questo deserto vicino ai pozzi, nell'oscurità appiccicosa nella quale ci muovevamo come spettri usare un termometro non aveva più senso: la sabbia vetrificava, per un raggio di una decina di metri intorno alle fiamme vomitate dalla rabbia della Terra verso il Cielo.

Decidemmo di andare più a sud, verso Al Wafra. All'orizzonte, un sottile cordone argentato ci mostrò uno spettacolo struggente, schiacciato tra il buio del Cielo e quello della Terra. Ci ricordava che qualcosa ancora esisteva, fuori di qui. Se non fosse per quella striscia d'argento, l'angoscia che ci prendeva allo stomaco, ad essere soli in questo posto, sfigurati dalle maschere antigas, dietro alle quali i nostri occhi cercavano, spalancati, disperati, qualche riferimento familiare, sarebbe troppa. Ci fermammo. Scesi sulla strada e le suole si incollarono al catrame caduto dalle nubi. Restammo solo sgomenti, nel terrore davanti al luogo più nero della Terra.

Al Wafra era un villaggio fantasma. C'erano ricche coltivazioni sperimentali. Pomodori, palme, fiori. Il cielo era ora più chiaro, ma l'orizzonte era sempre chiuso dal grigiore del fumo e il sole non riesciva a passare.
Vedemmo una macchina parcheggiata poco più in là, con i fari accesi. Un uomo dignitoso, nella sua jaballà candida, avvolto da un'altrettanto candida kefià, sorvegliava il suo aiutante egiziano che stava annaffiando una piccola palma, con una tanica. Levata la mascherina protettiva ci mostrò la sua palma acquistata a Londra, poco più di un anno prima. E' di un tipo speciale, molto prezioso. Tre volte alla settimana le porta l'acqua. Le piante, ci dice, sono molto importanti. Le piante sono la Vita.

Un'immagine del Kuwait durante l'incendio del pozzi
(foto Blue Planet©)


Due settimane dopo, su richiesta delle Nazioni Unite, altre ventitré compagnie di pompieri specializzati, provenienti da tutto il mondo, oltre alle quattro americane vennero ammesse a spegnere i pozzi del Kuwait.
Era il 6 novembre 1991 quando l'ultimo pozzo in fiamme fu spento dopo otto lunghi mesi di lotta contro le fiamme.


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